No: the narration of my defecating.
Secondo lo psicologo Jerome Bruner (p.28) ogni cultura è l'elaborazione collettiva di significati basati sull'interpretazione di informazioni e sulla negoziazione di comportamenti umani che le narrazioni contribuiscono a condividere. Bruner, nel corso di tutta la sua opera, ha evidenziato l'importanza delle narrazioni per la costruzione del "senso del sè " di ogni individuo nell'ambito della cultura di appartenenza. Egli scrive nel libro "La ricerca del significato" (p. 131):
Ho voluto dimostrare come l'esistenza e il sè che noi stessi costruiamo sono i prodotti di questo processo di costruzione del significato. Ma ho anche voluto chiarire che i sè non sono nuclei di coscienza isolati, racchiusi nella mente, bensì sono "distribuiti" in senso interpersonale. E i sè non possono avere origine come reazione istantanea al presente, poiché assumono significato alla luce delle circostanze storiche che danno forma alla cultura di cui essi sono espressione.
I racconti trasformano la realtà in una "realtà attenuata". Io ritengo che i bambini, naturalmente grazie alle circostanze, siano predisposti a iniziare la loro carriera di narratori in questo spirito. E noi li dotiamo dei modelli e di un insieme di strumenti procedurali per lo sviluppo di tali capacità, senza le quali non saremmo mai in grado di sopportare i conflitti e le contraddizioni generati dalla vita sociale: diventeremmo inadatti alla vita della cultura.
Il bambino intuisce che la conoscenza del linguaggio potrebbe procurargli dei vantaggi anche se, in quel momento, ne ignora gli svantaggi. Scrive Bruner (p. 76):Il bambino impara ad usare alcuni tra gli strumenti meno simpatici della pratica retorica: l'inganno, l'adulazione e via di seguito. Ma impara anche molte utili forme di interpretazione, e perciò sviluppa un'empatia più penetrante. In questo modo il bambino fa il suo ingresso nella cultura umana.
Il linguaggio viene acquisito non da spettatori, ma attraverso l'uso. L'esposizione al flusso del linguaggio non si rivela così importante quanto il suo utilizzo nel processo del "fare". Apprendere un linguaggio, per citare una nota frase di John Austin, significa apprendere come "fare cose con le parole". Il bambino non impara semplicemente "che cosa" dice ma anche come, dove, a chi e in quali circostanze.
E' probabile che le storie traggano origine dal nostro passato di raccoglitori-cacciatori, da come i nostri primi antenati trasmettevano le proprie esperienze di procacciamento del cibo. Parte di questo passato può essere catturato guardando ai cacciatori-raccoglitori di oggi. Tra gli Archè del Paraguay orientale, si dice che ogni uomo riferisca nei dettagli agli altri di ogni esemplare di selvaggina incontrato quel giorno, e il risultato dell'incontro. Ciò permette al gruppo di familiarizzare con il terreno, con i luoghi dove è probabile trovare la selvaggina, con le tecniche di caccia, i successi e i fallimenti. [...] I bambini sarebbero stati affascinati dai racconti narrati dagli uomini, e magari ripetuti dalle donne, acquisendo così conoscenza sulle fonti di cibo e sulle tecniche di caccia, prima di cominciare loro stessi a cacciare. [...] Nelle prime fasi, è probabile che le storie siano state narrate in forma di pantomime, con le persone che recitavano le proprie esperienze. Ma la pantomima è inefficiente e spesso ambigua, sicchè occorreva sviluppare un sistema di simboli i cui significati fossero chiari e compresi dai membri della comunità.
Il nostro senso dell'io è intessuto in una continua narrazione personale che unisce parti disparate della nostra vita in una trama coerente. Il narratore risiede soprattutto nella modalità di default, ma mette assieme tutta una serie di input provenienti da un'ampia gamma di aree del cervello che, in se stesse, non hanno nulla a che fare col senso dell'io.
Si è riusciti a chiarire cosa sia realmente l'interpretazione proprio grazie ai test sui pazienti "split brain": venivano loro mostrate contemporaneamente due immagini di un pollo, una per ciascun emisfero. Dopodiché i soggetti osservavano una serie di figure aggiuntive (diverse per ogni emisfero) e sceglievano quelle che sembravano loro attinenti all'originale. Dalla selezione delle immagini, si poteva notare - ad esempio - che il soggetto sceglieva con la mano sinistra - controllata dall'emisfero destro - una pala; mentre con la mano destra - controllata dall'emisfero sinistro - indicava una zampa di pollo. Ebbene, se è ovvia l'associazione pollo-zampa di pollo, meno scontata era quella con la pala. Si mostrava dunque l'oggetto all'emisfero sinistro, che riconosceva come la scelta operata dal destro, in base alla sua conoscenza non verbale e inaccessibile, fosse in contraddizione e la "correggeva", elaborandone una spiegazione: la pala serviva per pulire la gabbia dei polli. Ecco, dunque, come l'emisfero sinistro faccia da "interprete" del reale.
L'idea che la coscienza sia divisa in un cervello diviso ha avuto un impatto significativo sulla neuroscienza cognitiva in generale. Ad esempio, le teorie attualmente dominanti sulla consapevolezza cosciente - la Teoria dell'Informazione Integrata (Tononi, 2005 ; Tononi, 2004) e la Teoria del Global Neuronal Workspace (Dehaene & Naccache, 2001; Dehaene, Kerszberg, & Changeux, 1998) - possono essere criticamente dipendenti dalla validità di questo punto di vista. Entrambe le teorie implicano che senza una comunicazione massiccia tra diversi sottosistemi, ad esempio gli emisferi corticali, sorgono agenti coscienti indipendenti. Pertanto, se la visione della coscienza divisa non è valida, queste teorie possono essere contestate in modo critico.
In un'ampia varietà di compiti, i pazienti con cervello diviso con una transezione completa e radiologicamente confermata del corpo calloso hanno mostrato piena consapevolezza della presenza e riconoscimento ben al di sopra del livello casuale della posizione, dell'orientamento e dell'identità degli stimoli in tutto il campo visivo, indipendentemente di tipo di risposta (mano sinistra, mano destra, o verbalmente).
Pensando all'attività del narrare all'interno della pratica clinica possiamo affermare come al paziente venga chiesto di raccontare un evento: deve cioè dar voce alle sue rappresentazioni trasformando un ricordo semantico in uno autobiografico, richiesta che comporta un'organizzazione del materiale depositato in memoria ed una esposizione sistematica dello stesso, attraverso il linguaggio. Traducendo in storie la propria esperienza di vita è possibile giungere ad una strutturazione del proprio pensiero. Inoltre nel momento in cui la storia viene raccontata subisce una rielaborazione, che permette una presa di coscienza dell'evento che si sta trattando. Nel caso sia necessaria un'ulteriore riformulazione il narrante sarà in grado di discriminare gli eventi importanti da quelli che non lo sono.
La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico.
- Sequenzialità (una sequenza di eventi o stati mentali che coinvolgono i personaggi)
- Indifferenza ai fatti (verità o falsità degli eventi non influiscono sul significato del racconto)
- Scostamento dalle convenzioni (il modo di gestire i conflitti e rinegoziare i significati è un importante indicatore della validità e vitalità di una cultura)
I racconti, se condotti fino alla fine, sono esplorazioni entro gli ambiti delimitati dalla legittimità. [...] Essi si presentano come racconti "realistici", con un problema spiegato da un punto di vista morale, se non risolto. E se gli squilibri continuano ambiguamente a sussistere, come spesso nel romanzo postmoderno, ciò si verifica perchè i narratori cercano di sovvertire i mezzi convenzionali attraverso i quali il racconto si colloca - normalmente - in una posizione di moralità. Scrivere un racconto significa inevitabilmente assumere una posizione morale, anche se si tratta di una posizione morale contro le posizioni morali.
Come riporta la giornalista Adrienne LaFrance (vedi bibliografia), le dieci parole che le persone classificano come più felici erano: risata, felicità, amore, contento, riso, ridere, che ridere, eccellente, ride, e gioia . Le dieci parole che le persone classificano come le meno felici erano terroristi, suicidio, violenza, terrorismo, omicidio, morte, cancro, ucciso, uccidere, e morire. L'elenco completo delle parole è consultabile qui. Gli archi narrativi più frequenti nei 1327 racconti analizzati sono risultati essere:
- Dalla povertà alla ricchezza (rags to riches): ascesa
- Tragedia (riches to rags): caduta
- Giù nella fossa (man in a hole): caduta e ascesa
- Icaro (Icharus); ascesa-caduta
- Cenerentola (Cinderella): ascesa-caduta-ascesa
- Edipo (Oedipus): caduta-ascesa-caduta
La capacità di identificare e comprendere gli stati soggettivi degli altri è uno dei più sorprendenti prodotti dell'evoluzione umana. Tale capacità consente una navigazione di successo nelle più complesse relazioni sociali e aiuta a sostenere le risposte empatiche che le mantengono. Deficit in questo insieme di abilità, comunemente indicata come Teoria della Mente (ToM), è associata a psicopatologie marcate da difficoltà interpersonali. [...] I risultati dei nostri esperimenti segnano solo un passo verso la comprensione dell'impatto delle nostre interazioni con la narrativa, le cui esperienze sono pensate per contribuire allo sviluppo della coscienza e per arricchire le nostre vite quotidiane.
Ad esempio, secondo Campbell, i riti di passaggio (nascita, imposizione del nome, pubertà, matrimonio, sepoltura) servivano ad eliminare dalla mente dell'interessato gli affetti degli stadi precedenti (e al contempo influenzare il suo gruppo sociale), mentre la fase successiva serviva a presentare le forme della nuova condizione. Attraverso queste continue trasformazioni, che avvenivano siano nel conscio che nell'inconscio di ognuno, le società si rigeneravano. Secondo Campbell ogni mito è lo sfruttamento, inconscio e collettivo, della mente nel quale è annidato.
La psicologia di Jung ha evidenziato la persistenza dei miti arcaici nella mente dell'uomo contemporaneo mostrando quanto e in che modo tali miti agiscano ancora oggi sotto le spoglie moderne dei disturbi psicologici. I miti sono stati creati dall'uomo come mezzo per sostenere le sollecitazioni più drammatiche della sua vita.
Campbell sosteneva che la maggior parte dei miti si basava prevalentemente su un eroe e sul suo viaggio simbolico.
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Pagina aggiornata il 30 novembre 2023