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Coloro cui sfugge completamente l'idea che è possibile aver torto non possono imparare nulla, tranne la tecnica. (Gregory Bateson)
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Cos'è una offesa? è un insulto, o un modo per verificare la propria capacità relazionale, anche nei rapporti amorosi?
TEORIE > CONCETTI > LINGUAGGIO
Scopo di questa pagina
Perchè, spesso, ci offendiamo? Perchè riteniamo che siano insulti alla nostra persona quelli che sono, probabilmente, solo stimoli alla nostra personalità? La causa più importante del sentimento di offesa sembra essere questa: "Non ti sei accorto di me quanto, o come avresti dovuto": Ci offende chi non ci riconosce come essere umano quale ognuno di noi è, con la propria razza, etnia, cultura, aspetto o anche, ruolo sociale. Il "riconoscimento" è la chiave di molti processi mentali che vanno poi a influenzare e determinare processi sociali, economici, politici, e culturali. Il filosofo Matteo Visentin, sulla base delle idee di Axel Honneth cerca di risalire all'origine del concetto di riconoscimento, che si verifica nel bambino che viene accudito dalla madre nei primi mesi di vita, e scrive: "Honneth per spiegare meglio la prassi del riconoscimento trova sostegno in Donald Winnicott. La simbiosi tra madre-figlio nei primi mesi di vita è tale che entrambi si percepiscono unici nel loro stare-al-mondo. I due sono cioè intersoggettivamente indifferenziati. A Winnicott interessa capire come da questa forma unitaria i due apprendano a percepirsi come differenti." Alla fine di questa fase si verifica, per ogni bambino (tranne che la madre non abbia patologie mentali), il salto nella differenziazione, cioè, come scrive Visentin: "Se prima la figura della madre era risolta all'interno di sé, nel proprio mondo-soggettivo, il bambino deve ora uscire da sé accettando la rivendicazione dell'altro (della madre). Ma è appunto la madre a “stanarlo”, a costringerlo ad uscire. Winnicott però non si ferma a questo punto e procede oltre. Il bambino ora è in preda ad una scoperta inquietante, quella di non disporre più del mondo degli oggetti come dipendenti da lui, madre inclusa. [...] Il bambino impara ad essere amato solo quando continua a sentirsi amato nell'assenza della madre. Ciò significa imparare a stare da soli nella separazione e nella comprensione di sé come autonomo, rassicurata sempre sulla base di un affetto riconosciuto e vissuto stabilmente. L’esperienza della “separazione” è qui imprescindibile."
Il processo mentale descritto è quello che porta l'individuo (quando le cose vanno bene) a differenziare il proprio sé da quello della madre e a prepararsi alla differenziazione da tutti coloro che incontrerà poi. Infatti, quando il bambino è diventato un adulto, il riconoscimento viene messo alla prova dai rapporti "interpersonali" che egli intrattiene con tutti gli altri e dal continuo sforzo che ognuno fa per essere riconosciuto come desidera. Allora quelle che riteniamo offese sono forse stimoli che ci invitano alla proattività e all'autonomia? L'offesa è dunque un "sollevatore mentale" di energia che può spingerci ad agire?
Riconoscimento
Biani
Punto chiave di questa pagina
RICONOSCIMENTO DELL'ALTRO COME VALORE CHE GUIDA L'INTERSOGGETTIVITA': Il sentirsi 'offesi', spesso è una forma di misconoscimento, ovvero il sentirsi non riconosciuti dagli altri per le qualità umane che riteniamo di avere. Il 'riconoscimento' è un valore essenziale affinchè possa iniziare una relazione di intersoggettività. Diventa chiaro allora quanto esso sia evolutivamente antico, e abbia guidato l'instaurarsi delle prime relazioni umane. Ancora oggi il riconoscimento anticipa l'attribuzione di credibilità a una persona o ad un organismo sociale, soprattutto adesso che molte relazioni non avvengono 'di persona' ma attraverso la Rete, come proposto dal sociologo Guido Gili nella pagina sulla "credibilità di una persona o di un website". In ogni caso il riconoscimento continua ad essere fondamentale nei rapporti tra le persone, raggiungendo il suo massimo valore nelle relazioni amorose, infatti in un rapporto d'amore "sano" se si vuole essere "riconosciuti" nella propria realtà di individuo umano, occorre abbandonare il corpo e dedicarsi a possedere il "desiderio" dell'altro. E questo atto deve essere reciproco se si vuole che il rapporto funzioni, come scrive il filosofo Matteo Visentin: Il Desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o, meglio ancora, “riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano”
Punti di riflessione
Sentirsi offesi non è per forza un sentimento torbido e introverso. Può essere, al contrario, una rivelazione, come sosteneva Rosenberg; del nucleo d'identità che si intende difendere, anche nella sfera pubblica; dello stato attuale di un rapporto. (Remo Bassetti p.266)
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Ogni persona ha la responsabilità personale di apprendere o relazionarsi in modi costruttivi piuttosto che distruttivi. (Thomas Szasz)
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All'interno della pluralità dei temperamenti e delle vicende che la rendono un'esperienza fortemente personale, riconosco tendenzialmente al sentimento di offesa  un'attitudine proattiva e, contrariamente alla convinzione più diffusa, una spinta all'autonomia. (Remo Bassetti p.16)
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Il soggetto è libero quando, nel quadro delle pratiche istituzionali, incontra un partner al quale è legato da un rapporto di reciproco riconoscimento poiché nei suoi scopi può ravvisare una condizione di realizzazione dei propri scopi. (Axel Honneth)
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Il Desiderio della coscienza per trovarsi deve incontrare più propriamente un “altro” Desiderio. Deve cioè, desiderare un desiderio. E l’unico desiderio è quello di un'altra coscienza, cioè di un altro individuo. La controprova risiede nel fatto che gli oggetti in sè non sono animati da alcun Desiderio. (Matteo Visentin p.26)
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Per dirsi “Io” e pensarsi come un autoriferimento, la coscienza ha bisogno di un Tu che le dica “Tu”. Quel Tu infatti diventa oggetto di sé per questa coscienza che solo così si trasforma in autocoscienza. Cioè oggettivando se stessa. Ma per compiere questa particolare azione tale coscienza non ha altra scelta che uscire da sé. Questo movimento è però a sua volta possibile solo di fronte a un'altra coscienza che rende a sua volta possibile lo stesso processo verso se stessa tramite la prima. Il movimento è quindi duplice e vale per entrambe le coscienze. (Matteo Visentin p.22)
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Desiderare il Desiderio di un altro è dunque [...] desiderare che il valore che io sono o che io rappresento sia il valore desiderato da quest’altro: voglio che egli riconosca il mio valore come suo valore, voglio che egli mi riconosca come un valore autonomo. (Alexandre Kojève)
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Quando una persona non sa più ridere di se stessa, è il momento per gli altri di ridere di lui. (Thomas Szasz)
Cos'è un'offesa
Lo scrittore Remo Bassetti nel libro "Offendersi" scrive (p. 17):
Le ragioni per cui una persona si sente offesa, come cercherò di dimostrare, si riassumono in tre categorie, che a volte si sovrappongono:

  1. Hai detto male di me (il dire male ha la sua espressione più nota nell'insulto, ma difficilmente le grandi offese originano dal turpiloquio. Nonostante l'etimologia della parola rimandi a un oggetto di solidità cilindrica, di solito l'epiteto stronzo evapora velocemente, che sia iscritto all'interno di una subitanea zuffa verbale tra automobilisti, una canzonatura cameratesca o in appendice a un moto di stizza che rende più tesa la serata domestica o la pausa caffè in ufficio).

  2. Hai violato un confine (con violazione del confine, nella sua forma basica, intendo che qualcuno si prenda libertà o confidenze non giustificate dal rapporto o dal contesto. Il confine, in termini personali, si può violare valicandolo, e però anche ponendolo: come nel caso di una persona con cui abbiamo instaurato un'intesa amichevole  ed emotive durante una serata e, incontrata dopo pochi giorni, risponda con estrema freddezza al nostro approccio caloroso).

  3. Non ti sei accorto di me quanto, o come, avresti dovuto (il non accorgersi, in chiave offensiva, comprende una vasta gradazione: ignorare completamente la presenza di una persona in una circostanza che richiederebbe un'interazione, sottovalutare il suo apporto a un'attività o a un gruppo, fraintendere malamente i suoi desideri, lasciar cadere nella distrazione un gesto che per chi l'ha compiuto aveva un profondo valore simbolico, dimenticarsi dei benefici che un altro ci ha voluto concedere).

L'offesa è un "sollevatore mentale" di energia che può spingerci ad agire?  
Riconoscimento del valore di una persona
Non ti sei accorto di me quanto, o come avresti dovuto. Questa sembra essere la causa più importante del sentimento di offesa: ci offende chi non ci riconosce come essere umano quale ognuno è, con la propria razza, etnia, cultura, aspetto o anche, ruolo sociale.
Il filosofo Matteo Visentin nella sua tesi di laurea ha analizzato il riconoscimento secondo la prospettiva del filosofo Axel Honneth, che ha analizzato il concetto giuridicamente e socialmente, e ha scritto (vedi bibliografia 2017):

Il riconoscimento diventa il tema fondativo. Honneth lo ha presentato e analizzato in tutte le sue forme che nella società contemporanea si sono messe in luce negli sviluppi storici. “Riconoscere” è dare propriamente un “valore” ad un altro individuo. Si può dare questo valore in molti ambiti della struttura sociale. Come vedremo, si può “riconoscere” ad un altro soggetto un rapporto d’amore, oppure un rapporto giuridico, economico, oppure ancora un rapporto politico. “Riconoscere” è allora dare, muovere, in direzione di un altro individuo, un “valore” in carne ed ossa. Questo “valore” è così importante perché è in seno ad esso che noi tutt’ora articoliamo le nostre identità, il rapporto con noi stessi e il sapere in generale. Ciò significa, in poche parole, che solo grazie all’azione del riconoscimento l’essere umano può in definitiva conoscere.

Secondo Remo Bassetti ci sono tre macroaree in cui gli individui perseguono il riconoscimento del proprio valore (p.134):

La sfera intima (che comprende le persone care)
La sfera chiusa (che riguarda i gruppi dentro i quali esercitano stabilmente le proprie attività o coltivano relazioni personali)
La sfera aperta (ovvero tutti quelli che non conosciamo, o conosciamo solo superficialmente, o le istituzioni)

All'interno di ognuna di esse maturiamo aspettative sul riconoscimento, diverse per ciascuna esigenza specifica.
Riconoscere” è dare propriamente un “valore” ad un altro individuo. Questo “valore” è così importante perché è in seno ad esso che noi tutt’ora articoliamo le nostre identità, il rapporto con noi stessi e il sapere in generale. Ciò significa che solo grazie all’azione del riconoscimento l’essere umano può in definitiva conoscere
Come si forma il concetto di riconoscimento nell'uomo, dalla nascita alla morte
Il "riconoscimento" è la chiave di molti processi mentali che vanno poi a influenzare e determinare processi sociali, economici, politici, e culturali. Ad esempio, in una fase di grandi migrazioni qual è quella attuale (ma sappiamo che le migrazioni appartengono alla storia umana), il problema del "riconoscimento" di colui che si inserisce in un nuovo contesto si è sempre presentato. Anzi, secondo una recente ricerca dell'antropologa biologica che studia il microbiota intestinale nell'ampio contesto dell'ecologia e dell'evoluzione dell'ospite, Katherine R. Amato (vedi bibliografia 2021) , è emerso che la salute del microbiota intestinale delle persone che hanno subìto degli stress (per motivi etnici, razziali, culturali, ecc.) segnala un'incremento della "disuguaglianza sanitaria". Il filosofo Axel Honneth ha perfino scritto un libro "La lotta per il riconoscimento" nel quale esamina storicamente il concetto di riconoscimento nell'Europa degli ultimi due secoli, dal punto di vista giuridico, sociale, politico, ecc. Nella presentazione del libro egli scrive:

In questo libro vengono sviluppati i  fondamenti di una teoria sociale normativa a partire dal modello concettuale hegeliano di una “lotta per il riconoscimento” → negli scritti jenesi di Hegel ritrova una concezione  morale  del  conflitto  iscritta  nella  concezione  generale  della  lotta  per  il  riconoscimento. Nella  prima  parte  del  lavoro  enuclea  tre  forme  di  riconoscimento,  ciascuna  delle  quali  contiene  in  sé  il potenziale di una  motivazione dei  conflitti. Nella seconda parte di questo libro si  tenta di  dare all’idea hegeliana una valenza  empirica,  ricorrendo  alla  psicologia  sociale  di  George  Herbert  Mead  →  prende  corpo  una concezione intersoggettiva della persona che fa dipendere le possibilità di un rapporto non distorto con sé fra tre forme di riconoscimento: amore, diritto, stima. Successivamente verrà elaborata una distinzione tra  differenti  rapporti  di  riconoscimento  con  riferimenti  a  fenomeni  concreti:  alle  tre  forme  di riconoscimento  corrispondono  tre  tipi  di  misconoscimento,  la  cui  esperienza  può  influire,  come motivazione dell’agire, sull’insorgere di conflitti sociali. Conseguenza:  idea di una teoria critica della società nella quale i processi di trasformazione sociale devono essere spiegati in relazione alle pretese normative  strutturalmente  implicite  nel  rapporto  di  reciproco  riconoscimento.



Il filosofo Matteo Visentin scrive (p.21):

Nella "Fenomenologia dello spirito" di Hegel  il riconoscimento entra senza dubbio come un “momento” dello sviluppo evolutivo della coscienza (cioè dell'individuo). Detto ancora meglio è senz'altro vero che il riconoscimento fonda l'autocoscienza (l’Io) in Hegel, ma è anche vero che questa nascita comporta qualcosa di più di due soggetti che stanno uno di fronte all'altro e che poi apprendono a relazionarsi tramite il lavoro. Proprio perché il riconoscimento è un “momento” come atto, inteso come azione, è anche però un suo prolungamento, ha cioè degli sviluppi interni e delle conseguenze ben precise. Possiamo infatti affermare che non sarebbe stata possibile una storia dell'uomo intesa nel senso comune senza un previo riconoscimento.
Possiamo affermare che non sarebbe stata possibile una storia dell'uomo intesa nel senso comune, senza un previo riconoscimento
Le fasi del riconoscimento nell'uomo, dal bambino all'adulto
Il filosofo Matteo Visentin, sulla base delle idee di Honneth cerca di risalire all'origine del concetto di riconoscimento, che si verifica nel bambino che viene accudito dalla madre nei primi mesi di vita, e scrive (pp. 40-41):

Honneth per spiegare meglio la prassi del riconoscimento trova sostegno in Donald Winnicott. La simbiosi tra madre-figlio nei primi mesi di vita è tale che entrambi si percepiscono unici nel loro stare-al-mondo. I due sono cioè intersoggettivamente indifferenziati. A Winnicott interessa capire come da questa forma unitaria i due apprendano a percepirsi come differenti. Se il bambino non ha mai fatto prima d'ora una simile esperienza di “distacco” guadagnando se stesso, la madre invece sì. Ma la madre è ora, fin dall'esperienza della gestazione, diciamo così, in uno stadio regredito quasi infantile, verso un assottigliamento della distanza temporale ed esistenziale per la futura condizione del figlio. Infatti le totalizzanti dedizioni e premure che scaturiscono ora dalla nascita del bambino, diventano pratiche di cura per lui. E quest’ultime si fondono all’esperienza della madre che fa ritorno ad un livello fanciullesco di pura unità, sia col mondo che col bambino. Tornando la madre è inserita nell’esistenza del bimbo. Entrambi vivono così a tal punto un pianeta unitario che la soddisfazione di un bisogno dell'uno è al contempo la soddisfazione del bisogno dell'altro. È la simbiosi d’amore. [...]  Con la crescita del figlio però, la madre vede in lui una tensione allo sviluppo che non dipende da lei. In questo aspetto la madre vede cioè una parte, uno spazio quasi organico di autonomia del bambino a cui tende la sua crescita. In questa esperienza, in un simile spazio, la madre ritrova un ambiente per la percezione della propria autonomia e assume un arretramento davanti al figlio, di modo che solo così riacquisisce una coscienza di sé come soggetto sociale, cioè animato e compartecipato da altri bisogni personali che non riguardano esclusivamente il bambino. [...] Se prima la figura della madre era risolta all'interno di sé, nel proprio mondo-soggettivo, il bambino deve ora uscire da sé accettando la rivendicazione dell'altro (della madre). Ma è appunto la madre a “stanarlo”, a costringerlo ad uscire. Winnicott però non si ferma a questo punto e procede oltre. Il bambino ora è in preda ad una scoperta inquietante, quella di non disporre più del mondo degli oggetti come dipendenti da lui, madre inclusa. Inizia così un processo aggressivo rivolto verso di lei. Attraverso gesti violenti “il neonato verifica inconsapevolmente se l'oggetto dell'investimento affettivo fa effettivamente parte di una realtà non influenzabile”. Il fatto che la madre sopravviva ai suoi attacchi dimostrerà empiricamente al neonato l'autonomia della madre-oggetto dalla propria volontà. Questi atti distruttivi rappresentano così l'atto costruttivo di un riconoscimento. Il neonato è cioè costretto ad ammettere l'indipendenza della madre. Ed è proprio così che il bambino scopre l'altro, iniziando al contempo una lenta e graduale scoperta di sé che fino ad ora gli era strutturalmente preclusa. Dopo aver sperimentato la sua capacità di ritrarsi, il bambino si indirizza comunque verso gli altri oggetti, come i suoi giochi per esempio, ma anche le parti del suo corpo. È qui allora che Winnicott introduce la teoria dell'oggetto transizionale. Come Lukács sostiene che gli oggetti non siano cose, bensì relazioni tra gli uomini; anche il bambino, per Winnicott, investendo affettivamente il suo mondo desiderante negli oggetti che manipola, ed essendo questi investiti di attenzioni anche dalla madre che si relaziona a lui, inizia a viverli come sostituti di lei. In effetti il bambino compie ora quelle azioni violente anche verso i medesimi oggetti sovra-simbolizzati. Secondo Winnicott un simile atteggiamento del bambino è visto come mediazione tra lo stadio simbiotico precedente in cui viveva con la madre e quello che via via sta maturando in lui: l'esperienza della solitudine. Dalla solitudine dipende l’esperienza stessa di essere amati. Senza solitudine non c’è amore. Il bambino impara ad essere amato solo quando continua a sentirsi amato nell'assenza della madre. Ciò significa imparare a stare da soli nella separazione e nella comprensione di sé come autonomo, rassicurata sempre sulla base di un affetto riconosciuto e vissuto stabilmente. L’esperienza della “separazione” è qui imprescindibile.
È anche evidente che i due individui possono amarsi, cioè mantenersi due, solo in una separazione che garantisca a loro un’autonomia: l’amore nel dipendere dai loro desideri, o bisogni reciproci. Secondo Honneth ogni rapporto d'amore instaurato successivamente a questo appena descritto, vivrà del suo insopprimibile ricordo. Il bambino cresciuto cercherà quindi nel proprio futuro un amore che viva rievocando questo stadio simbiotico. Se questo stadio verrà raggiunto di nuovo, il rapporto d'amore nascerà però solo quando la simbiosi verrà nuovamente “disillusa”. Insomma, solo l'arretramento, la distanza, la rivendicazione da parte dell'uno verso l'altro rompe la simbiosi, lasciando l'altro in solitudine, ovvero nell'unica possibilità in cui un individuo può amare, perché solo così è in autonomia dipendendo dall'amore di colui che ama. Quando il bambino saprà allora compiere e comprendere questa dinamica complessa, egli non avrà solo guadagnato l’amore, ma anche e soprattutto la nascita di se stesso e del suo graduale rispetto di sé. O se si vuole, il rispetto del proprio Desiderio.

Il processo mentale descritto è quello che porta l'individuo (quando le cose vanno bene) a differenziare il proprio sé da quello della madre e a prepararsi alla differenziazione da tutti coloro che incontrerà poi. Infatti, quando il bambino è diventato un adulto, il riconoscimento viene messo alla prova dai rapporti "interpersonali" che egli intrattiene con tutti gli altri e dal continuo sforzo che ognuno fa per essere riconosciuto come desidera. C'è però un rapporto che sollecita in maggior misura tale desiderio di riconoscimento, ed è il rapporto d'amore con un'altra persona con la quale si instaura un rapporto (precario-costante) di dipendenza. L'amore (almeno nelle fasi iniziali del desiderio e dell'attrazione) costringe a rinunciare a essere se stessi, quasi una patologia temporanea che guida l'individuo verso l'indifferenziazione del sé: il soggetto perde l'autonomia per rifuggiarsi nella simbiosi con l'altro/a.

Amore è descritto da Honneth attraverso quel particolare tipo di esperienza che in questi legami facciamo sotto l'espressione dell’essere se stessi in un estraneo. È in realtà Hegel ad utilizzare questa formula nel Sistema dell'eticità. Honneth riprende tale locuzione aumentandone la portata, affermando che per amore si intende quell’essere in un rapporto-precario-costante nella dipendenza, altrettanto permanente, verso un'altra persona. L'amore di fatto ci costringe a uscire da noi stessi, dalla visione ego-riferita del proprio mondo da cui proveniamo e ci sospinge attraverso l'altro a rinunciare a noi stessi, cioè a rinunciare all'autoaffermazione totalitaria individuale. In direzione dell'altro, o più propriamente nel perdersi nell'altro, l'individuo passa da uno stato di autonomia ad uno stato simbiotico. Essendo però questo rapporto interpretato da Honneth come il risultato di una “approvazione affettiva”, deve rimanere a suo avviso la contraddizione che nello stesso momento soggiace all'interno di questo stesso rapporto: la costante tensione tra autonomia (di se stessi) e simbiosi (nell'altro).

In un rapporto d'amore "sano" se si vuole essere "riconosciuti" nella propria realtà di individuo umano, occorre abbandonare il corpo e dedicarsi a possedere il "desiderio" dell'altro. E questo atto deve essere reciproco se si vuole che il rapporto funzioni, come scrive Visentin:

Se l'amore volesse annientare l'altro, come alcuni atteggiamenti descritti sul piano fenomenologico suggerirebbero, allora tratterebbero l'altro come oggetto, cioè solo come corpo vuoto. Ma non è questo ciò che l'amore vuole. “Il Desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o, meglio ancora, “riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano”. L'amore dell'uno, per garantirsi la sopravvivenza dell'amore dell'altro, quindi la garanzia di essere amato, indietreggia, ottenendo solo in questo modo il suo amore. Solo così infatti l'amore ottiene l'autonomia di sé e dell'altro, perché un tale movimento è e deve essere bilaterale.
L'amore di fatto ci costringe a uscire da noi stessi, dalla visione ego-riferita del proprio mondo da cui proveniamo e ci sospinge attraverso l'altro a rinunciare a noi stessi, cioè a rinunciare all'autoaffermazione totalitaria individuale. In direzione dell'altro, o più propriamente nel perdersi nell'altro, l'individuo passa da uno stato di autonomia ad uno stato simbiotico. Se l'amore volesse annientare l'altro, come alcuni atteggiamenti descritti sul piano fenomenologico suggerirebbero, allora tratterebbero l'altro come oggetto, cioè solo come corpo vuoto. Ma non è questo ciò che l'amore vuole. “Il Desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o, meglio ancora, “riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano”
Conclusioni (provvisorie): quelle che riteniamo offese sono forse stimoli che ci invitano alla proattività e all'autonomia?
Perchè, spesso, ci offendiamo? Perchè riteniamo che siano insulti alla nostra persona quelli che sono, probabilmente, solo stimoli alla nostra personalità? La causa più importante del sentimento di offesa sembra essere questa: "Non ti sei accorto di me quanto, o come avresti dovuto". :Ci offende chi non ci riconosce come essere umano quale ognuno è, con la propria razza, etnia, cultura, aspetto o anche, ruolo sociale. Il "riconoscimento" è la chiave di molti processi mentali che vanno poi a influenzare e determinare processi sociali, economici, politici, e culturali. Il filosofo Matteo Visentin, sulla base delle idee di Axel Honneth cerca di risalire all'origine del concetto di riconoscimento, che si verifica nel bambino che viene accudito dalla madre nei primi mesi di vita, e scrive: "Honneth per spiegare meglio la prassi del riconoscimento trova sostegno in Donald Winnicott. La simbiosi tra madre-figlio nei primi mesi di vita è tale che entrambi si percepiscono unici nel loro stare-al-mondo. I due sono cioè intersoggettivamente indifferenziati. A Winnicott interessa capire come da questa forma unitaria i due apprendano a percepirsi come differenti." Alla fine di questa fase si verifica, per ogni bambino (tranne che la madre non abbia patologie mentali), il salto nella differenziazione, cioè, come scrive Visentin: "Se prima la figura della madre era risolta all'interno di sé, nel proprio mondo-soggettivo, il bambino deve ora uscire da sé accettando la rivendicazione dell'altro (della madre). Ma è appunto la madre a “stanarlo”, a costringerlo ad uscire. Winnicott però non si ferma a questo punto e procede oltre. Il bambino ora è in preda ad una scoperta inquietante, quella di non disporre più del mondo degli oggetti come dipendenti da lui, madre inclusa. [...] Il bambino impara ad essere amato solo quando continua a sentirsi amato nell'assenza della madre. Ciò significa imparare a stare da soli nella separazione e nella comprensione di sé come autonomo, rassicurata sempre sulla base di un affetto riconosciuto e vissuto stabilmente. L’esperienza della “separazione” è qui imprescindibile."
Il processo mentale descritto è quello che porta l'individuo (quando le cose vanno bene) a differenziare il proprio sé da quello della madre e a prepararsi alla differenziazione da tutti coloro che incontrerà poi. Infatti, quando il bambino è diventato un adulto, il riconoscimento viene messo alla prova dai rapporti "interpersonali" che egli intrattiene con tutti gli altri e dal continuo sforzo che ognuno fa per essere riconosciuto come desidera. Allora quelle che riteniamo offese sono forse stimoli che ci invitano alla proattività e all'autonomia? L'offesa è dunque un "sollevatore mentale" di energia che può spingerci ad agire?
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Pagina aggiornata il 5 luglio 2023

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Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 2.5 Generico
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